Lettera aperta alla Redazione de
Il Paese delle donne
di Lea Melandri


Care amiche,
dopo essere stata presente alla vostra riunione dei primi di gennaio, mi ero riproposta di scrivervi, non appena tornata a Milano. Lo faccio ora, con molto ritardo. Volevo dirvi innanzitutto la mia gratitudine per la tenacia e la generosità con cui avete tenuto in vita il giornale per tanti anni, ma mi premeva anche continuare, sia pure indirettamente, la discussione avviata con voi sul perché la funzione del Foglio, riconosciuta singolarmente da ognuna delle sue numerose lettrici/collaboratrici come indispensabile, manchi poi, contraddittoriamente, del sostegno economico adeguato e di una conseguente valorizzazione culturale e politica.


Per quanto mi riguarda, devo ammettere che non amo né il colore rosa né la metafora del "paese", che mi ricorda lontane oppressioni di provincia, ma, se questi aspetti non secondari nella fisionomia di un giornale, il nome e il colore, non mi hanno fatto ombra, è perché il discorso che vi si svolge dentro fin dall'inizio non ha nulla che richiami stereotipi femminili o nostalgie comunitarie. Semmai, mi è sembrato a volte che peccasse del contrario: linguaggi politici un po' ingessati, inclinazione verso un femminismo istituzionalizzato nelle sue pratiche e nei suoi linguaggi, incapace di tenere lo sguardo sulla relazione vita e politica, soggettività e analisi sociale.

Eppure ho l'impressione che, ciò nonostante, sia toccata al Paese delle donne una sorte non molto dissimile da quella che viene assegnata alle madri o alle strutture di servizio. Più un contesto si dà come presenza duratura, solida, discreta, incondizionata, più ci dimentichiamo che esiste. Se poi ci fa posto ogni volta che lo chiediamo, senza opporre alcun filtro o alcuna critica, accontentandosi di far convivere voci diverse, finiamo per pensare inconsapevolmente che questa disponibilità ci è dovuta, e che perciò non ha costi. Come le cene servite, i vestiti stirati, la stanza del giornale che ha permesso alle molte "anime" del femminismo di farsi ogni tanto visita è la prima a scomparire, quando le ospiti vi hanno preso comodamente posto. Anche l'idea di pubblicare tutto - notizie, registrazioni di convegni, interventi parlamentari, recensioni di libri, ecc.-, senza gerarchia e senza gabbie ideologiche di contenimento, deve essere sembrato ad alcune una debolezza, anziché l'indisciplinata, liberatoria reazione al "pensiero unico", invalso purtroppo anche nel femminismo.

Il Paese ha dato "cittadinanza" per anni alle voci più disparate dell'impegno culturale e politico delle donne, ha costretto orientamenti di pensiero che fuori si facevano la guerra a procedere affiancati nelle colonne del giornale, ha fatto in modo che, in tempi di atomizzazione esasperata, restasse viva quanto meno l'idea spaziale della condivisibilità. Per parte mia, ho visto in questa Babele informativa, tranquilla e consapevole di sé, la figura che più si avvicinava allo stato reale del movimento delle donne (o di quel che ne resta) oggi e, nel medesimo tempo, l'unico modo per disporsi pazientemente a una prevedibile ripresa di tematiche comuni, riavvicinamenti e confronti. E così mi pare sia avvenuto, da qualche anno a questa parte, dietro la spinta di profondi, drammatici cambiamenti che attraversano il mondo in cui viviamo, a tutto campo, dal quotidiano dei singoli individui fino alle sorti del pianeta: le biotecnologie, la guerra, la globalizzazione economica, il disprezzo delle più elementari regole democratiche, le migrazioni, l'impoverimento di una parte consistente del mondo, l'individualismo e la disaffezione politica, in crescita tra i cittadini benestanti dell'Occidente.

Si è parlato molto, soprattutto dopo l'attacco alle Torri di New York e dopo la comparsa delle donne afgane coperte dal burqa, dell'"invisibilità" delle donne, delle forme più o meno violente in cui compare nelle diverse culture. Una sicuramente ci riguarda, ed è l'assenza della quasi totalità della produzione culturale femminista (sottolineo questa parola perché sappiamo che non coincide tout court con femminile) dai media nazionali. La coscienza del rapporto tra i sessi nell'arco di trent'anni, se si parte anche soltanto dal movimento delle donne degli anni '70, ha prodotto elaborazioni teoriche, ricerche, intelligenza collettiva, pratiche sociali e lavorative inedite, ma ancora stenta a mostrarsi allo scoperto, a fare opinione, ad aprire conflitti, a produrre cambiamenti significativi nel privato e nel pubblico, ormai decisamente sovrapposti.

Per quanto sia importante combattere il pensiero unico di uomini e donne, là dove si manifesta come chiusura a voci diverse, non viene meno per questo la necessità di avere un luogo proprio, autonomo, dove costruire una riflessione capace di tenere ferma su alcuni punti chiave l'analisi del sessismo, i nessi tra dominio maschile e sistemi economici di sfruttamento, alienazione culturale, ingiustizia, imbarbarimento, pulsioni distruttive. Capace, all'occorrenza, di manifestare pubblicamente il proprio dissenso, nei modi che di vota in volta si ritengono più opportuni. Il Paese delle donne è stata la tessitura paziente, in questo decisamente "femminile", che ha impedito una disgregazione irrimediabile del femminismo in Italia.

Per la stessa ragione, io credo, ha patito una messa in ombra da parte delle stesse donne, singole o associazioni, che ne hanno beneficiato, La misoginia, dobbiamo riconoscerlo, non risparmia neanche le coscienze più avvedute. Forse è venuto il momento di assumere più attivamente e consapevolmente il posto che il Foglio ci ha riservato generosamente per anni, spesso senza contropartita alcuna. Potremmo cominciare per esempio ad esprimere, oltre che il dovuto riconoscimento, opinioni, giudizi, critiche che possano portarlo più vicino alle esigenze, sicuramente molteplici e diverse, delle tante donne che lo leggono, vi scrivono, se ne servono per tenersi reciprocamente informate. Con affetto.
Lea Melandri